Il CPR è tortura di Stato

Il CPR è tortura di Stato

Soffiano venti di guerra all’orizzonte. Soffiano a più non posso venti inquietanti, forti, impetuosi. È una guerra che si combatte ad armi impari, in mare, in faccia ai porti, davanti ai cancelli dell’Europa. Da una parte un esercito di secondini e sentinelle, di guardiani dei confini, di fabbricanti di odio, di manipolatori delle coscienze; dall’altra un’umanità depredata e saccheggiata da secoli di colonialismo che sopravvive nell’imperialismo. Secoli di violenza ancora oggi palese nella spietatezza e nella disumanità delle politiche degli stati europei. Una guerra impari combattuta per ricacciare indietro un’umanità in fuga da guerre, disastri ambientali, sfruttamento inumano da parte di multinazionali onnivore. Le onde continuano a portare a riva imbarcazioni tenute assieme da chiodi arrugginiti, fragili come la Summer Love. Le navi delle ONG continuano a portare in salvo persone scampate per un pelo alla morte, altre rinchiuse all’interno di bare anonime. Il Mediterraneo continua ad accogliere nei suoi abissi migliaia di corpi, uomini, donne e bambini dei quali non resterà traccia del loro passaggio in questa vita. Corpi che nessuno reclamerà ma la cui scomparsa genitori o figli piangeranno in qualche angolo remoto del mondo. Intanto il governo più fascista degli ultimi anni in Italia, si appresta a costruire nuovi lager di stato, come già anticipato nei mesi scorsi dal DL Cutro.

Ci aveva provato Marco Minniti 6 anni fa attraverso la Legge 46/2017 che prevedeva la nascita di un CPR in ogni regione. L’allora Ministro degli Interni era stato il fautore delle politiche di criminalizzazione nei confronti di chi salva vite in mare, di chiunque crei spazi di opposizione e operi nel campo della solidarietà e dell’istituzione dei CPR, l’acronimo affibbiato dalla legge ai centri di identificazione e deportazione dei migranti presenti sul territorio italiano. Centri – ma sarebbe più corretto chiamarle carceri su base etnica – istituite nel 1998 quando Livia Turco e Giorgio Napolitano nel T.U. dell’immigrazione 286/1998, stabilirono il trasferimento coatto dei migranti presenti in maniera irregolare sul territorio nazionale al loro interno. In origine erano CPT, divennero poi CIE e infine CPR: acronimi diversi ad indicare lager di stato nei quali si viene rinchiusi per un tempo variabile che, secondo il recente dispositivo legislativo arriva fino a 18 mesi. Un anno e mezzo rinchiusi all’interno di gabbie dove gli abusi sono all’ordine del giorno. Rinchiusi all’interno di celle pollaio che ricevono luce solare solo poche ore al giorno, mura dietro le quali vengono nascosti abusi reiterati, quotidiani atti di autolesionismo e tentativi di suicidio. I Cpr sono luoghi nei quali la tortura viene praticata sistematicamente, quotidianamente. Negli anni abbiamo instancabilmente denunciato l’abominio di tali mostri giuridici. La Calabria ha sperimentato sul proprio territorio la presenza di due Cpt/Cie, uno a Pian del Duca e uno a Isola Capo Rizzuto. Al loro interno suicidi e torture, danneggiamenti e fughe, atti di autolesionismo e psicofarmaci a gogo. Abbiamo lottato per la loro chiusura attraverso proteste, denunce ed esposti; hanno lottato da dentro i migranti, quelli che non avevano più nulla da perdere. Il sangue rappreso alle pareti testimone muto della loro resistenza.

In barba a Convenzioni e Trattati internazionali l’Italia crea nuovi laboratori di tortura, di sofferenza fisica e mentale. Perquisizioni corporali, isolamento, assenza di assistenza medica, interventi sanitari coercitivi, costrizione a ingerire cibi o liquidi inadatti all’alimentazione umana, percosse sistematiche e umiliazioni sono pratiche all’ordine del giorno nei Cie/Cpr, più e più volte denunciate nel corso degli anni. A tutto ciò si aggiunge l’aggravante della cosiddetta “garanzia finanziaria” di 4938 euro, un’espressione rassicurante per intendere quello che è un vero e proprio riscatto di stato ai danni di persone che non hanno nemmeno gli occhi per piangere. La Libia rappresenta una tappa obbligatoria per i migranti provenienti dall’Africa Centrale che intendono arrivare in Europa. La Libia, per molte di queste persone è sinonimo di carcere e il carcere in quel paese è sinonimo di tortura. Altissima è la probabilità di essere arrestati dalla polizia o, più frequentemente, dai cosiddetti “asma boys”, gruppi armati che detengono il potere, costituiti da miliziani, trafficanti di persone, mercenari, delinquenti comuni. I motivi per cui si tortura in Libia, sono dissimili da quelli individuati all’interno della Convenzione contro la Tortura dell’ONU “il termine tortura designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze fisiche o psichiche, al fine di ottenere da questa o da un’altra persone informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ha commesso, di intimidirla o esercitare pressioni su di lei o su una terza persona (…)qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale o sotto sua istigazione oppure con il suo consenso espresso o tacito”. C’è alla base la negazione dell’umanità della persona, ridotta a mero oggetto ma, c’è soprattutto un tornaconto monetario: il migrante è una banconota in movimento. Da domani, anche allo sbarco in Italia. Ci chiediamo se la presidente Meloni intenda reclutare e avvalersi delle competenze degli asma boys, da impiegare all’interno dei nuovi Cpr per beneficiare della garanzia finanziaria richiesta ai migranti. Ai dannati della terra, colpevoli di esistere, di muoversi, di avere cercato condizioni migliori per vivere o sopravvivere, palle lanciate al centro, calciate ai margini, rigettate indietro da leggi disumane.

Mai più ci eravamo detti, all’indomani della chiusura dei CIE calabresi. Quel Mai più è già Ancora?

 

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