Non chiamiamola tragedia, né disgrazia! Bisogna dare alle parole la giusta accezione e quello consumatosi nella notte fra il 25 e il 26 febbraio sulla spiaggia di Steccato di Cutro (Kr) è un crimine di dimensioni enormi, le cui responsabilità sono da attribuire a quei pacchetti di leggi contro l’umanità, promulgate dal 1998 ad oggi, di cui l’Europa e il governo italiano si fanno vanto.
È tanta la rabbia in queste ore. Rabbia repressa, dentro di noi contenuta da tanti anni, per le situazioni contro le quali quotidianamente ci troviamo a lottare. Perché è assai facile pontificare quando si parla di immigrazione, di accoglienza, di ciò che sarebbe giusto o non giusto fare. Ma la frustrazione e il senso di impotenza è tanta quando ci si trova di fronte le persone in carne ed ossa, quando ci si trova davanti occhi asciutti e spenti, corpi marchiati dalle tante violenze subìte, vite violentate da un occidente spietato che sfrutta, ammazza, specula e infine criminalizza coloro che provano a superare la fortezza di filo spinato sulla quale poggia il nostro mondo.
Provocano ribrezzo le parole di un Piantedosi qualsiasi il quale, con i corpi ancora caldi nelle bare del PalaMilone e di tanti altri che ancora giacciono sul fondale marino, pretende di impartire lezioni sul senso di responsabilità. Provocano repulsione le manifestazioni di solidarietà ipocrita da parte di tanti rappresentanti istituzionali i quali sono accorsi per sfilare sulla passarella del palazzetto. Facce contrite e parole di commiserazione a favore delle telecamere dei cronisti davanti al cancello della struttura. Intanto, quasi nessuno si chiede cosa ne sarà dei superstiti, degli 80 sopravvissuti i quali a piccoli gruppi vengono portati all’interno del palazzetto per il riconoscimento delle salme dei loro familiari. Dove vengano riportati al termine delle operazioni di riconoscimento, in che modo possano riuscire a riallacciare i fili delle loro esistenze, quanto funesta debba sembrare loro questa terra promessa fatta di filo spinato, di flash puntati in faccia e di curiosità morbosa. Fatta di bare allineate, di numeri ai lati, del freddo nelle ossa delle acque gelide di un mare invernale, che non passa né mai passerà. E di fronte alla disponibilità di accoglienza all’interno della rete SAI, i sopravvissuti al naufragio vengono lasciati dietro alle sbarre e al filo spinato di quel mostro giuridico che risponde al nome di CARA di Sant’Anna. Negando loro anche quell’accoglienza necessaria ad affrontare e provare ad elaborare i lutti dei propri figli, mogli, mariti.
Ancora qualche ora e i riflettori si spegneranno su questa triste vicenda. I cronisti andranno via, le bare saranno tumulate in Italia, alcune verranno trasferite nei paesi dai quali scappavano, altre portate in Germania, in Austria e in Francia. Amara consolazione: poveri resti umani chiusi tra quattro tavole di legno. Ancora qualche ora e anche questa vicenda cadrà nel dimenticatoio. Le persone continueranno a morire su coste un po’ più lontane, i naufragi avverranno più in là, nella SAR libica la guardia costiera continuerà a sparare sui barconi carichi di persone, corpi di bambini gonfi d’acqua continueranno ad affiorare sul mare, altri giaceranno sui fondali marini, altri ancora non saliranno affatto su quei barconi: moriranno dissanguati, di fame e di sete nei centri di detenzione libici generosamente finanziati dal nostro paese. Ancora poche ore e potranno tutti tornare a morire in pace, a non sconvolgere le nostre gracili coscienze, lontani dagli occhi e lontani dal cuore.
Intanto il governo si appresta a varare nuove leggi repressive nei confronti di chi pratica la solidarietà, in perfetta continuità con i precedenti legislatori. Intanto il sistema pubblico dell’accoglienza viene sempre più smantellato, ormai reso simile a un’enorme macchina burocratica. L’operazione è quasi compiuta: una società sempre più chiusa su se stessa e arcigna verso chi percepisce come portatore di diversità; un paese nel quale attori, pratiche, discorsi sono quotidianamente plasmati da rapporti di dominio o di sfruttamento oltre che da dispositivi di governo, di regolazione giuridica, di distinzione tra coloro meritevoli di inclusione e coloro da escludere, rifiutare, espellere.
Ma se solo le nostre coscienze si risvegliassero all’improvviso, sentiremmo ancora, in lontananza, le urla disperate di quei bambini scivolati in mare, vedremmo i puntini colorati andare giù, sentiremmo i polmoni riempirsi di acqua salata e probabilmente impazziremmo per l’infamia del nostro egoismo.
Sia loro lievissima questa terra inospitale, sia loro lievissimo questo mare nero!
La Kasbah
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